È un ritorno a Venezia, quello di Patrice Leconte. L’ultima volta è stata nel 2013 per presentare il film Una promessa (2014) tratto dal libro di Stefan Zweig Il viaggio nel passato alla Mostra del Cinema. Lo ritroviamo protagonista di un evento speciale del Ca’ Foscari Short Film Festival, che dal 20 al 23 marzo presenta una selezione di cortometraggi realizzati da giovani cineasti provenienti da tutto il mondo. Un impegno in più per questo regista-scrittore-fumettista iperattivo che moltiplica le attività (dalla realizzazione di film alla pubblicazione di libri) e che a Venezia dialogherà con il pubblico per una masterclass capace di metterne in mostra le diverse e profonde sensibilità artistiche.
«Mi fermerò, ma più tardi» confessava dopo aver pubblicato il libro J’arrête le cinema (Abbandono il cinema), proprio mentre usciva nelle sale un suo nuovo lungometraggio, Voir la mer (2011).
Leconte avrebbe paura del vuoto? Lui che ha esordito come disegnatore nella rivista Pilote è autore di 30 lungometraggi, tra cui un film di animazione e un documentario. Segni particolari? Sempre un nuovo scenario in mente su cui lavorare.
Com’è arrivato al cinema?
Quando ero piccolo mio padre aveva una
telecamera per riprendere la famiglia in vacanza, in spiaggia. Ogni
tanto me la prestava e ho fatto i miei primi filmetti di animazione con
dei ritagli di carta, dei video muti e altre cose modeste, molto
casalinghe ma che appagavano un forte bisogno di esprimermi attraverso
le immagini. A Tours, dove sono cresciuto, c’era negli anni ‘60 un
festival del cortometraggio molto prestigioso, in cui sono stati
presentati i primi film di registi ormai noti come Roman Polanski, Gino
Robert Enrico e molti altri. È assistendo a questo festival che si è
concretizzato il mio desiderio, fino a quel momento un po’ confuso, di
far parte del mondo del cinema. Quei film brevi che si basavano su una
sola idea, in generale molto forte, mi hanno convinto che si trattava di
un mondo alla mia portata, ovviamente a patto che mi fossi formato in
quel senso. Avevo pure io molte idee, tutte solide e abbastanza
'cinematografiche', e potevo quindi fare altrettanto. Da lì, tutto
si è accelerato: ho annunciato ai miei genitori che il mio sogno era di
realizzare dei film. Mi hanno sostenuto dicendomi che nessun sogno era
impossibile e mi hanno spinto a provarci. Sono quindi andato a Parigi
per seguire i corsi dell’Institut des Hautes Études Cinématographiques,
dove ero stato miracolosamente ammesso.
Da giovane regista,
quali sono i consigli che ha ricevuto e che vorrebbe trasmettere a sua
volta a un giovane regista di oggi, magari impegnato proprio nel Ca'
Foscari Short Film Festival?
Non bisogna mai pensare di non potercela
fare, soprattutto agli inizi. Se si parte da perdenti, non si arriverà
mai a vincere. I miei avevano ragione a spingermi a inseguire i propri
sogni: non sono mai irraggiungibili. Citerei anche il consiglio che
diede il padre di Jacques Brel al proprio figlio, allora incerto su cosa
fare nella vita: «Fai ciò che vuoi, ma fallo bene». Questa semplice
frase dà valore e senso alle cose che si fanno, qualunque esse siano.
Ma quindi se non bisogna mai partire da perdenti, pensa che i premi siano importanti per un regista?
Certo,
è importante ricevere un premio: è incoraggiante, dà sicurezza. Ma non è
una celebrazione fine a sè stessa. Non riceverne non significa essere
negati o degli incapaci, non bisogna fare dei film seguendo solo questo
obiettivo. È un obiettivo che, se viene raggiunto, ammorbidisce un
percorso tortuoso e complesso. Questo mestiere rimane, anche per chi ha
vinto dei premi, molto fragile. Nonostante la mia esperienza e i 30
film che ho alle spalle continuo a lottare e a dover superare numerose
difficoltà, prima di concretizzare un progetto di film.
Ai premi
quindi non bisogna pensare come una fine, ma come un mezzo. Per quanto
mi riguarda, molto egoisticamente, cerco di fare dei film che piacciono a
me stesso prima di pensare all’effetto che potrebbero avere sulla
giuria di un premio. Se ho lavorato con convinzione e sincerità allora
il film mi piace e il mio secondo desiderio è che trovi un suo pubblico.
Alla domanda «Perché fai del cinema?» la mia unica risposta è che
voglio condividere e trasmettere al pubblico le mie emozioni, siano esse
allegre o malinconiche.
Lei è conosciuto prevalentemente per
commedie ormai entrate nella storia del cinema francese. Non ha
realizzato film che veicolano un messaggio politico. Al Ca’ Foscari
Short Film Festival una sezione sarà dedicata alla crisi migratoria. Che
sguardo rivolge al cinema 'politico'?
I miei film non sono impegnati
politicamente, ma lo sono su altri fronti, non fare film politici non
significa che non mi interessi molto questo tipo di registro espressivo e
tematico. La loro materia prima è la realtà, l’essere umano, la vita, a
differenza del mio cinema che è molto spesso di pura immaginazione. Di
fronte a film ispirati al reale, mi sento necessariamente coinvolto.
Però i film politici, per non annoiarmi, non devono essere moralisti,
non devono costringere lo spettatore ad ascoltare una lezione. Non mi
piacciono il film troppo didattici, che ci dicono cosa pensare e come
pensarlo. Preferisco quelli che ci portano a scoprire situazioni che non
conoscevamo o punti di vista inediti su delle questioni sociali e anche
politiche, magari.
Cosa pensa del cinema italiano?
Per me, il
cinema italiano è strettamente legato ai nomi di grandi maestri come
Fellini e Antonioni, la cui eredità mi sembrava inesistente fino a poco
tempo fa. Sempre di più si nota un emergere di giovani registi italiani
che potrebbero raccoglierne il testimone, senza però riuscire
necessariamente ad attraversare le Alpi, per via di una distribuzione
internazionale che non è ancora abbastanza efficiente, dal mio punto di
vista. Colpa anche forse del cinema italiano stesso, dominato per anni
da commedie troppo ‘italo-italiane’ per oltrepassare un confine.
Lo
stesso potrebbe valere per alcune delle sue commedie ormai diventate
'cult' in Francia ma non altrettanto conosciute in Italia per il fatto
di essere troppo 'franco-francese'. Quale film consiglierebbe a un
italiano per farsi un’idea della produzione cinematografica di Patrice
Leconte?
È molto difficile rispondere a questa domanda, perché ho
fatto talmente tanti film diversi gli uni dagli altri che non saprei
dire quale mi rappresenti di più! Direi che il mio cinema è multicolore e
può soddisfare sia amatori di commedie, a cui potrebbe piacere ad
esempio Il marito della parrucchiera, sia spettatori di film più cupi o
introspettivi a cui consiglierei La ragazza sul ponte o Monsieur Hire.
Insisto però sulla pluralità del mio cinema, come cifra distintiva.
Nel
corso della sua carriera ha adattato diverse opere letterarie. Da dove
viene secondo lei questo bisogno di tradurre in immagini delle parole
scritte?
La storia del cinema è composta da molti adattamenti di
opere letterarie ed è un fenomeno che considero quasi naturale. Quando
leggo un libro sento talvolta dentro di me dei riverberi emozionali
tanto forti che mi viene voglia di portarli allo schermo. Il rischio è
che l’adattamento diventi un’illustrazione debole e banale del libro. Non
si tratta solo di mettere in immagine ciò che si è letto, piuttosto di
adattare il testo 'adottandolo': bisogna 'fare proprio' il romanzo per
estrarne un film che abbia qualcosa di personale, mettersi al servizio
del testo dando a vedere anche qualcosa di intimo e sincero.
E cosa pensa invece del meccanismo inverso, adattare cioè uno dei suoi romanzi?
Ogni
volta che mi viene fatta questa domanda mi chiedo cosa potrei fare ed
esprimere di più profondo, rispetto ad un concetto che ho già scritto.
Se è solo per dare un corpo ai miei personaggi, allora preferisco andare
avanti su altri progetti. Detto ciò, l’ultimo libro che ho pubblicato
(Louis et l’Ubiq, Arthaud, 2017) tratta del concetto dell’ubiquità, tema
molto cinematografico che, anche solo per la sua natura stessa, di
sdoppiamento e di onnipresenza, vorrei portare al cinema. Dovevo
iniziare le riprese a primavera, ma al momento le ho accantonate.
Capita spesso di lavorare su progetti di film che alla fine non si concretizzano?
Nella
mia carriera ho realizzato 30 film che sono usciti al cinema, ma ho
lavorato su altrettanti film che sono stati abbandonati in corso
d’opera. Non mi considero fatalista, ma se un progetto di film non va
avanti per una serie di motivi allora non insisto.
Di certo non mi
accanisco, non lo tiro fuori anni dopo, non credo nelle 'minestre
riscaldate'. Volto pagina e lo faccio senza fatica, perché ho sempre il
prossimo film in mente. Non mi è mai capitato di finire il montaggio di
un film chiedendomi cos’avrei fatto dopo: ho sempre un pensiero
d’anticipo. Sarà probabilmente la paura del vuoto o la passione per il
cinema… chi lo sa! La mia mente è costantemente all’erta e pronta a
pensare a un nuovo film, che spesso nasce da qualcosa di molto
inaspettato: vedo, leggo o sento qualcosa che come un seme, a forza di
rifletterci, germoglia costantemente, giorno dopo giorno, fino a
diventare qualcosa di grande e articolato.
«9. Ca’ Foscari Short Film Festival»
20-23 marzo Auditorium Santa Margherita
cafoscarishort.unive.it
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