Nata a Roma, dove vive e lavora, inizia la sua carriera giovanissima, lavorando per quasi dieci anni alla Sartoria Tirelli. Qui svolge tutta la parte di elaborazione del materiale (invecchiamenti, tinture, ricami), iniziando a collaborare per film come Il nome della rosa (1985), Le avventure de Il barone di Münchausen (1988) con i costumi di Gabriella Pescucci, ed Atlantide (1991) con i costumi di Maurizio Millenotti, passando, pian piano, ad occuparsi di tutte le mansioni che si svolgono nella sartoria, fino ad affiancare il direttore Giorgio d’Alberti nella realizzazione dei costumi di vari film e spettacoli che dal 1985 al 1993 sono stati prodotti dalla sartoria per i maggiori costumisti italiani e stranieri.
Negli stessi anni, Silvia Aymonino allestisce diverse mostre promosse dalla Sartoria Tirelli, come Vestire I Sogni a Mantova e Lisbona, La Donazione Tirelli a Palazzo Pitti a Firenze o Emilio Pucci per la Settimana della moda di Firenze. Come costumista debutta all’Opera di Roma nel 1996 in Turandot, con la regia di Stefano Monti e le scene di Edoardo Sanchi. È lei a vestire l’allestimento de La bohème che ci racconta e dal 16 del mese troviamo sul palcoscenico del teatro cittadino, diretto da Stefano Ranzani e Francesco Lanzillotta.
Dagli inizi alla Sartoria Tirelli ad una carriera che la vede impegnata
sul fronte teatrale, cinematografico e delle spettacolari cerimonie
olimpiche degli ultimi anni: quanto e come cambia l'approccio creativo
di questo mestiere in questi differenti ambiti?
L’approccio cambia
moltissimo, anche se in realtà nel cinema non lavoro da alcuni anni, un
po’ perché è capitato meno e un po’ perché di questi linguaggi è quello
che probabilmente mi affascina di meno perché troppo slegato dalla
natura live. A questo proposito, trovo meno differenze tra una cerimonia
di inaugurazione o chiusura di Olimpiadi e un’opera lirica, che non tra
un’opera e il cinema. L’emozione dello spettacolo dal vivo ha guidato
le scelte professionali che ho fatto: mi piace il brivido della diretta,
amo il lavoro di squadra portato avanti in un crescendo di tensione ed
emozione per arrivare ad un risultato da poter condividere. Anche per
motivi caratteriali il cinema l’ho trovato di una noia mortale! È
proprio l’approccio espressivo stesso a cambiare: quando si ha a che
fare con cinema, prosa o lirica ci si misura spesso con cose che sono
già state fatte mentre per un’Olimpiade si tratta sempre di attimi di
creazione ex novo. Un’opera lirica o un pezzo teatrale corrispondono
al bisogno del regista o dello scrittore di comunicare qualcosa, di
rendere visibile agli altri una propria condizione interiore magari
poggiandosi ad un testo già scritto; per un’Olimpiade può essere
l’aspetto invece antropologico a prevalere, arrivando spesso a
coincidere con una vera e propria immedesimazione in un Paese, in una
cultura che non sono i tuoi, aiutandoli con il tuo contribuito “vergine”
a raccontarsi.
I 'canoni classici' dell'opera lirica: recinto dal quale non uscire o trampolino per spaziare con la mente?
Per
parlare di questo aspetto penso a tutte le volte in cui sono stata
‘corteggiata’ dall’ambiente della moda, a quanto mi sono trovata a
disagio nel dover essere astratta e non collegata a qualcosa da dire,
urgenza che invece sento ben viva nell’opera lirica e nel teatro.
Ovviamente anche nella moda qualcosa da dire c’è, ma troppo spesso
legato alla necessità tutta commerciale di dover realizzare una nuova
collezione a cadenza regolare, ogni 6 mesi almeno. Facendo teatro si è
meno vincolati a queste tempistiche; la necessità di dover comunicare un
concetto può essere assecondata con maggiore facilità. Questa è la cosa
che probabilmente mi piace di più del teatro: la possibilità di poter
contare su una base di partenza che per alcuni può essere considerata un
limite e una costrizione, ma che invece per me rappresenta le
fondamenta per un confronto da cui parte la creatività vera e propria.
Senza questo confronto ammetto di sentirmi in grossa difficoltà;
trovarmi di fronte al foglio bianco senza sapere cosa il regista o lo
scenografo abbia davvero intenzione di raccontare non fa parte del mio
abituale metodo di lavoro.
Ciò che viene vissuto come una gabbia è
per me la scintilla che dà il via all’intimo combattimento da cui la
creatività nasce. Penso che sia la storia dell’arte stessa ad insegnarci
tutto questo; è illusorio pensare che non ci siano stati committenti a
chiedere quella specifica Madonna in quella determinata posizione, ma
nonostante questo abbiamo Madonne tutte diverse perché frutto della
specifica cifra stilistica di ciascun artista. Si tratta di
differenti sensibilità: esistono gli artisti puri che hanno bisogno di
portare avanti da soli una ricerca e quelli che io chiamo ‘applicati’,
che invece hanno bisogno di una struttura dentro la quale muoversi.
Anche un architetto, a questo proposito, può essere considerato un
artista a tutti gli effetti. Da un bando di concorso, da paletti
apparentemente rigidi possono venire fuori tantissimi progetti molto
diversi tra loro.
Quali sono le tappe concrete che portano alla creazione di un abito quando si ha a che fare con l'opera lirica?
Naturalmente
ogni costumista ha il proprio metodo. Di sicuro non ne esiste uno il
cui procedimento può essere applicato universalmente. Io devo per forza
partire da una lunga chiacchierata con il regista per poter capire
esattamente a quale concetto debba essere collegato questo o quel
personaggio all’interno dell’allestimento. Per me è fondamentale avere
dei corpi di fronte. Detesto disegnare senza sapere bene chi indosserà i
miei costumi: non ci si può limitare a vedere se la persona da vestire
sia alta o bassa, grassa o magra; è fondamentale capire anche come
questa persona viva il proprio corpo. Ci sono persone con un fisico non
aderente a certi canoni che sono in grado di portare dei vestiti con una
disinvoltura maggiore rispetto a chi invece possiede un corpo da
modella o modello.
C’è poi un’immensa ricerca iconografica che
sfocia in delle sintesi che realizzo attraverso dei collage veri e
propri, mio momento preferito in assoluto nella creazione di un abito e
fase di scrematura fondamentale delle tantissime informazioni che adesso
internet permette di raccogliere.
Non ho voglia di fare questo lavoro
con Photoshop e adoro davvero farlo a mano, proprio per l’importanza che
rivestono nel mio processo di sintesi il ritaglio e lo studio dei
materiali e dei colori. Su questo, e sull’idea che ho del corpo da
vestire, mi metto poi a disegnare: fatto il disegno, porto ancora avanti
la ricerca dei materiali e dei colori confrontandomi con regista e
sceneggiatori per capire quali siano le superfici delle scene allestite,
lucide o opache, anche in funzione dell’illuminazione studiata dal
light designer.
La cosa bella dell’opera è poter portare avanti il
lavoro attraverso delle autentiche pennellate di colore, che a volte
possono coincidere anche con la figura di un corista o comunque con un
elemento non necessariamente al centro della scena. Questo è l’aspetto
che forse più di ogni altro può mettere sullo stesso piano
l’allestimento di un’opera lirica e quello di una cerimonia olimpica,
sia pure con i dovuti distinguo relativi, nel secondo caso, all’utilizzo
di coreografie di massa in cui ogni singola persona coinvolta è, a suo
modo, un pixel fondamentale alla buona resa dell’immagine che l’occhio
percepisce.
Ne La bohème, che vedremo dal 16 marzo alla Fenice, quali sono state le principali suggestioni che l’hanno guidata?
Si
tratta di un progetto che è stato portato avanti lungo i binari
paralleli del mondo reale e di quello immaginario. Il Café Momus
appartiene ad entrambe queste sfere, come luogo reale modificato dallo
sguardo di sogno di ragazzi che in realtà potrebbero essere considerati
dei falliti. Grazie al genio di Edoardo Sanchi si assiste ad uno dei
cambi di scena più belli che abbia mai visto, passando appunto
dall’ambientazione della soffitta a quella del Momus, cambiamento
che si riflette ovviamente anche nella scelta dei costumi. Questo è
forse il valore aggiunto vero e proprio che l’opera lirica dà a chi fa
il mio mestiere, ossia la possibilità di giocare con diverse realtà
all’interno dello stesso spettacolo. Dico spesso che l’opera
rappresenta la mia passione perché la considero come la forma per certi
aspetti più simile ad un film di Walt Disney: come in un cartone
animato, si possono prendere per assunte delle cose assurde. Le rane
parlano? Nessun problema! Avanti con il resto della storia…
L'opera lirica, il film o il grande evento di cui vorrebbe disegnare e realizzare i costumi.
Come
molti altri costumisti mi capita spesso di attingere da un immaginario
estremamente infantile. Non credevo fosse possibile, ma le Olimpiadi mi
hanno dato la possibilità di spaziare molto sotto questo punto di vista,
anche attraverso l’uso di materiali e tecniche nuove e sempre più
coinvolgenti. Mi sarebbe piaciuto davvero tanto poter disegnare dei
costumi per dei fumetti da collezionista appassionata di Topolino quale
sono, a cui ho anche abbonato le mie figlie fin dalla nascita, passando
per tutti i più noti fumetti francesi e italiani a partire dalla metà
degli anni ’80, senza ovviamente tralasciare classici come Tintin e
Corto Maltese, oltre a tantissimi lavori del grandissimo Sergio Bonelli.
La bohème
16-25 marzo Teatro La Fenice
www.teatrolafenice.it
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